Mica tanto buona scuola: un bilancio di fine legislatura

Le statistiche continuano a ricordarci come gli insegnanti italiani siano pesantemente coinvolti nella crisi del ceto medio, con retribuzioni sotto la media dei Paesi dell’Unione europea nella misura del 30% e forme sempre più accentuate di impoverimento. Forse è il caso di ricordare che, a partire dal 1° gennaio 2011, dopo il contratto collettivo nazionale del 29 novembre 2007, il decreto-legge 78/2010 ha imposto un «blocco contrattuale» a fini del contenimento della spesa pubblica. Con sentenza 24 giugno 2015, n. 178 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale blocco, aprendo, in tal modo, una nuova stagione contrattuale per il triennio 2016-2018. Sicché è la Corte Costituzionale che ha imposto una linea di legalità, anche in questo campo. Dopo la sua pronuncia, il contratto era, semplicemente, un atto dovuto. Solo che, tergiversando per quasi tre anni, lo si è portato, non casualmente, sin dentro la campagna elettorale in corso.

Gli anni 2016 e 2017 bruciati con una tantum del tutto inconsistente e lorda. Il resto prelevato da uno stanziamento in atto, quello per il cosiddetto bonus premiale. Non un euro in più, non un impegno per l’innalzamento della qualità complessiva della didattica, a favore del diritto all’apprendimento, in particolare per il contrasto alla dispersione. L’unica cosa degna di rilievo è che il governo che ha varato la cosiddetta Buona scuola di fatto ha contribuito a smontarne un pezzo smentendo se stesso.

E’ da circa trent’anni che si discute di professione docente. Ma è bene precisare che con il bonus il governo ha fatto un’altra cosa, sotto il segno di una monetizzazione affidata a modalità diversificate, al punto che in non poche scuole le sue motivazioni non sono state accolte, ovvero, di fatto, devitalizzate. Bisogna anche ricordare, en passant, che la prima volta che l’espressione bonus è apparsa nella legislazione italiana è stata nella cosiddetta riforma Brunetta del 2009. Un copyright che definisce una subalternità culturale oltre che politica. Ma non mancano altri problemi. Proviamo ad esaminarli.

Potenziamento. Bisogna sapere che le immissioni in ruolo che vi sono state sono una conseguenza di una pronuncia della Corte di giustizia europea, a causa dell’uso non legittimo del precariato fatto in un reparto fondamentale della pubblica amministrazione come la scuola. Ora, sui precari, impiegati strutturalmente nel funzionamento di un pezzo rilevante della pubblica amministrazione, non ci sono discussioni da fare: vanno assunti. Ma bisogna farlo evitando di trattarli come un pacco postale, come, purtroppo, è accaduto, dando poi la colpa a chi non può replicare: il famigerato algoritmo. Bisogna farlo assegnando loro una cattedra. La tipologia di insegnamento che è stata denominata potenziamento costringe non pochi docenti, invece, a girare come globetrotter, alla ricerca di una collocazione, talvolta senza trovarla. In tal mondo la precarizzazione, da esterna che era, sta diventando interna alla scuola.

Dirigenti scolastici. Circa un terzo delle scuole italiane è in regime di reggenza. Il Miur ha assicurato che il relativo bando del concorso, già previsto dalla legge 107 in data 15 luglio 2015 con uno stanziamento di 1 milione di euro e che avrebbe dovuto essere promosso un anno fa, dopo l’uscita del regolamento, sarebbe stato promulgato entro la fine del luglio 2017. Il bando, invece, è uscito sulla Gazzetta Ufficiale del 24 novembre. Ciò significa che l’espletamento delle prove concorsuali – la prova preselettiva dovrebbe essere annunciata nella Gazzetta Ufficiale del 27 febbraio – non consentirà di insediare i nuovi dirigenti scolastici per l’apertura dell’a.s. 2018/2019, ma dall’a.s. 2019/2010, con un ulteriore disservizio per le scuole italiane.

Liceo breve. Non devono esserci scuola di serie A, con istruzione completa a cinque anni, e scuole di serie B, di quattro anni, per risparmiare (secondo il “Sole 24 Ore” circa 1 miliardo e 400 milioni). E’ del tutto condivisibile il punto di vista espresso da Alberto Asor Rosa (La scuola nelle mani di barbari, su “la Repubblica” del 26 agosto 2017): “Il problema va rovesciato rispetto a come viene attualmente posto: invece di diminuire i corsi di un anno, si tratta di far entrare un secolo in più nei programmi”.

Docenti a chiamata: mesi trascorsi dai dirigenti scolastici ad impostare bandi a evidenza pubblica, per qualche unità di personale, senza un reale miglioramento qualitativo. Di fatto un modo per scavalcare le graduatorie. Una perdita di tempo, senza frutto.

Alternanza scuola lavoro. Un confuso fai da te, un puzzle di soluzioni contraddittorie, poco corrispondenti al principio dell’eguaglianza, formale e sostanziale, sino a situazioni discutibili, o del tutto inappropriate, come quando i ragazzi, anche minori, vengono impiegati in forme di lavoro non retribuito. Il monte ore, non piccolo, destinato all’alternanza scuola-lavoro – 400 ore nell’ultimo triennio per gli istituti professionali e tecnici, 200 ore per i licei – andrebbe impostato a partire dalle compatibilità con i contenuti culturali. Se no l’alternanza rischia di diventare un intralcio all’attività didattica, già gravata da molti compiti, alimentando l’impressione che essa comporti non già un beneficio, ma un indebolimento dell’impianto formativo della scuola.
Tanti piani e poco arrosto. Nei decreti attuativi alla legge 107: il piano delle arti; il piano per l’inclusione; il piano di azione nazionale pluriennale per la promozione del sistema integrato di educazione e di istruzione (quante parole); altri tavoli; una pletora di Commissioni; la Conferenza nazionale per il diritto allo studio; l’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica; la cabina di regia di rappresentanti dei ministeri degli affari esteri e dell’istruzione; la commissione per il sistema integrato di educazione e di istruzione. Conseguenze sulla scuola realmente vissuta: nessuna.

Quando venne varata la legge 23 ottobre 1992, n. 421, capo del governo era Giuliano Amato, capo della Cgil Bruno Trentin. Non solo grazie a loro, anche grazie a loro, fu la più importante riforma del pubblico impiego del secondo dopoguerra. Da un lato, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro; dall’altro una distinzione tra indirizzo e gestione che è diventata canonica. Da lì il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, accolto poi nel d.lgs. 165/2001, che porta, nell’ordinamento, l’autonomia scolastica con l’art. 25 e la responsabilità gestionale del dirigente scolastico. Invece la cosiddetta Buona scuola, incredibilmente, ha revocato questa distinzione. Riscrivendo l’articolo 3 del D.P.R. 275/1999 al comma 4 essa ha attribuito al dirigente scolastico, responsabile in toto della gestione, il potere di indirizzo ai fini della definizione del Ptof.

Nella scuola italiana sono attivi alcuni strumenti di programmazione coordinati tra loro: 1) il Piano triennale dell’offerta formativa (Ptof); 2) il Rapporto di autovalutazione (Rav); 3) il Piano di miglioramento (Pdm). Non addentriamoci nel burocratese. Sino alla cosiddetta Buona scuola, nel rispetto della distinzione tra indirizzo e gestione, il Consiglio di Istituto si assumeva il compito di esprimere orientamenti e di esercitare un controllo, affidandando la gestione al dirigente scolastico. Dopo la cosiddetta Buona scuola non è più così: sulla figura dei dirigenti scolastici pesa una specie di conflitto di interesse (che gli stessi dirigenti scolastici per lo più subiscono) nel senso che essi devono conferire a se stessi un indirizzo che sono chiamati a svolgere nella gestione. Gli errori – o le spie rivelatrici di una mentalità contrapposta alla missione educativa della scuola in quanto schiacciata da visioni aziendalistiche – nei Rapporti di autovalutazione di alcuni licei, sotto il segno della discriminazione relativamente a disagio sociale, immigrazione, disabilità, hanno tutta l’aria di essere un frutto avvelanato di questo scardinamento del fisiologico rapporto tra indirizzo e gestione. Se un dirigente scolastico sbaglia non ha più qualcuno che glielo fa osservare e l’errore, o la mentalità mal impostata, emerge senza più filtri.

Nel nostro sistema scolastico il tema disabilità è stato affrontanto sin dalla legge 30 marzo 1971, n. 118. Poi dalla legge 4 agosto 1977, n. 517, cosiddetta “Falcucci”. Quindi dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104. Poi dalla legge 8-10-2010, n. 170, sui Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA): dislessia, disortografia, discalculia. Infine dalla direttiva ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con bisogni educativi speciali…” e dalla successiva circolare ministeriale 6 marzo 2013, n. 8, con nota prot. n. 2563 del 22 dicembre 2013. Quei licei che sottolineano come un vanto una bassa frequenza di disabili, della missione educativa della scuola e del rispetto della legislazione in atto, evidentemente, hanno capito molto poco. Ma la responsabilità è della politica che ha portato la situazione della scuola a questo punto.

Anche per questi motivi la cosiddetta Buona scuola è una legge inutile laddove è disattesa, dannosa dove produce effetti. Bisogna superarla. Affrontando i problemi veri della scuola. In cima ai quali è la circostanza che l’Italia è il Paese europeo con il più alto numero di giovani né studenti, né occupati, né in formazione: i Neet (Not – engaged – in Education, Employment or Training). Occorre un reale potenziamento dell’offerta formativa con interventi mirati sulla qualità dell’istruzione contro abbandono e dispersione e con stanziamento di risorse ad hoc. Nello stesso tempo è necessario adoperarsi per innalzare i livelli di istruzione superiore, in termini sostanziali, non formali. L’abolizione delle tasse universitarie va letta come parte di questo disegno più complessivo di riforma verso standard formativi europei, inserendo il comparto scuola-Università tra i diritti universalistici sostenuti dalla progressività fiscale.

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